“I giovani italiani rimangono in casa fino a trenta anni”. Abbiamo forse altra scelta?
“I giovani italiani rimangono in casa fino a trenta anni”. Abbiamo forse altra scelta?
Rabbia. Delusione. Frustrazione. Demotivazione. Rassegnazione. Scoraggiamento. Questi sono solo alcuni dei sentimenti negativi che si mescolano alla sempre verde speranza di noi giovani di riuscire a crearci un futuro fatto di sicurezza economica e una buona posizione lavorativa. La famiglia? Quella viene ai primi posti delle nostre priorità, peccato che senza un adeguato sostegno economico non si possa neanche immaginare di posare il cosiddetto ‘primo mattone’.
La maggior parte di noi si laurea, impegnandosi seriamente e con costanza per cinque lunghi anni in un estenuante tour de force mentale ed emotivo, volto ad un’unica grande meta: accaparrarsi un buon impiego e magari riuscire persino a fare carriera. E allora eccoci tutti a testa bassa, pronti a tuffarci nel mondo del lavoro con umiltà e l’alloro attorno al collo. Sappiamo già che sarà dura ma non ci importa: siamo convinti che sia giusto sgobbare e partire dal basso per arrivare in alto, perciò siamo pronti a farlo, carichi di speranza e buona volontà.
Poi cominciano i dolori, quelli veri. Passano i mesi, forse gli anni, e ciò che ci sentiamo proporre sono solo stage sottopagati o contratti a termine. All’inizio tutto sembra una grande opportunità. Stage (magari a scopo assunzione)? Ben venga: verremo studiati e messi continuamente alla prova per mesi ma poi, dopo esserci guadagnati il rispetto e la fiducia, ci verrà offerto un vero contratto. Non ha importanza se guadagneremo una miseria, la cosa fondamentale è dimostrare quanto valiamo. Peccato che, anche a causa del crollo economico globale, nessuno voglia più assumere. E allora ecco la delusione: “Se non fosse per la crisi, ti assumerei”. Ma la crisi c’è e non si può cancellare. Perciò non ci resta che saltare da un datore di lavoro all’altro, da uno stage a un contratto a progetto, sperando che questa maledetta crisi passi e qualcuno si degni di riaprire le assunzioni (proponendo contratti veri!).
Nel frattempo cosa ne è dei nostri progetti personali? Non abbiamo un lavoro stabile, perciò non siamo economicamente indipendenti: non possiamo affittare un appartamento (figuriamoci chiedere un mutuo) o comprare una macchina rateizzando il pagamento. Possiamo pensare alla convivenza (con il partner, nel caso ci sia, o con un amico) solo se accettiamo il compromesso di lavorare in due per pagare l’affitto e arrivare a fine mese con un conto bancario all’asciutto, ergo: nessuna possibilità di risparmio. E se capitasse un’emergenza? Meglio non pensarci, altrimenti realizziamo quanto sia impensabile credere di poter racimolare un gruzzoletto da investire in progetti futuri (una casa, un matrimonio, ecc).
E intanto il tempo passa e noi invecchiamo, avvicinandoci pericolosamente all’età in cui ci si aspetta che un ragazzo/a si sposi e metta su famiglia. Ormai sono passati anni da quando ci siamo laureati ma, indipendentemente dalla nostra buona volontà, la situazione rimane invariata: contratti precari e stipendi minimi. E’ così sbagliato parlare di rabbia, frustrazione e rassegnazione? Siamo ingabbiati in una trappola che ci lega mani e piedi, e ci obbliga a chiedere aiuto alla nostra unica àncora di salvezza e fonte di sostentamento: i nostri genitori. Dovremmo forse vergognarcene?
E allora mi chiedo: ha senso dare vita a dibattiti in tv in cui i giovani vengono criticati ed etichettati come ‘mammoni’ o ‘scansafatiche’? Forse è arrivato il momento di fare una distinzione tra chi non vuole e chi non può spiccare il volo. Forse è il caso di passare la parola ai diretti interessati: ragazzi e ragazze che, come me, sognano un futuro migliore vedendosi portare via tutto ciò che serve per costruirlo.

Laura: “Ho 27 anni, laureata da luglio 2007, triennale e specialistica. Ritengo di avere una formazione multidisciplinare e di essere una persona piuttosto flessibile; non ho mai avuto molte pretese…ma proprio non immaginavo che fosse così dura. Subito dopo l’università ho spedito centinaia di curricula…a vuoto. Poi, davvero per puro caso, mi è capitato di iniziare uno stage presso una struttura statale: sei mesi di difficoltà (vivevo fuori casa) e nessuna prospettiva, così ho rifiutato il rinnovo dello stage (e del misero rimborso spese) e me ne sono tornata a casa da mamma e papà, pronta ad inondare il mondo coi miei curricula e sperando in un futuro migliore (che allora credevo ancora roseo). Dopo un mese stressante passato come operatore di helpdesk informatico (e rifiutando un “generoso” contratto da apprendista per 5 anni con uno stipendio da fame), sono approdata presso un’emittente televisiva locale dove facevo l’agente…in stage! Anche se nella vita non avrei mai e poi mai voluto occuparmi di vendita, ho accettato quella occupazione perché avevo capito di voler lavorare nel mondo della comunicazione. I primi mesi sono stati pieni di soddisfazioni; pensavo che l’assenza di retribuzione (il rimborso spese bastava a mala pena per la benzina) potesse essere compensata dalla soddisfazione lavorativa. Della serie: non solo di pane vive l’uomo. Ma poi la crisi economica ha portato sempre meno lavoro e mi sono ritrovata ancora una volta a casa a sfogliare annunci... In quel momento ho avuto veramente paura perché mi sembrava di non saper fare niente e di aver studiato solo cose sbagliate! Allora mi sono chiesta cosa volevo davvero dalla vita e finalmente ho capito che volevo fare la copywriter. Mirare a un obiettivo è sicuramente limitante, oggigiorno, e me ne rendo conto, infatti ero pronta ad accettare qualsiasi impiego pur di porre fine alla mia disoccupazione. E quindi via, di nuovo a spedire curricula… Ora lavoro presso un’agenzia di comunicazione: faccio la copy, scrivo, organizzo eventi, faccio marketing, mi occupo di pubblicità di ogni genere. Sono psicologicamente appagata ma guadagno poco e gli straordinari non mi vengono retribuiti. Credo che il sogno di andarmene di casa e di avere un’indipendenza economica sia lontano anni luce, soprattutto perché non vedo prospettive di trovare un lavoro simile ma retribuito “umanamente”. A volte mi chiedo se tutti questi compromessi facciano bene… Confido tanto nel futuro e un giorno mi auguro di poter arrivare a una retribuzione giusta per tutto quello che faccio. Anche perché qualcuno ci ha chiamati “generazione mille euro”.. ma chi li ha mai visti mille euro?”

Anna: “Ho ventotto anni e ho terminato il ciclo di studi (triennale più specialistica in lingue) a inizio 2008. Durante gli studi ho fatto ben tre stage (senza alcuna remunerazione o quasi), e ho lavorato con contratti di collaborazione come promoter e come cameriera. Dopo la laurea credevo che finalmente sarebbero finiti i periodi di lavoro “gratuiti” o sottopagati, le difficoltà economiche e le incertezze sul futuro e che finalmente sarei stata ripagata dei tanti sforzi nello studio…mi sbagliavo. Sono stata assunta in una società, dove lavoro tutt’ora: è una società molto piccola e senza particolari prospettive di crescita, ma al momento dell’assunzione ero così soddisfatta! Per me era un inizio importante, il mio primo lavoro continuativo, in regola e costantemente retribuito. E invece…dopo alcuni mesi ho scoperto che la ditta aveva serie difficoltà finanziarie, le quali si sono aggravate con la crisi…così il mio stipendio ha cominciato ad arrivare sempre più in ritardo e quando chiedo delucidazioni a riguardo la risposta è sempre la stessa: “Ti devi adattare alla situazione altrimenti sei libera di andartene”. Neanche a dirlo miro a cambiare lavoro al più presto, il mio sogno sarebbe entrare in un’azienda più grande, solida e strutturata dove il salario non sia un optional ma una regola. Purtroppo però al giorno d’oggi trovare un nuovo lavoro è un’impresa titanica: i giovani disoccupati sono troppi, siamo costretti ad adattarci a tutto pur di avere uno straccio di possibilità, perciò le aziende si sentono autorizzate a trattarci senza il minimo rispetto: annunci fasulli, colloqui inutili (perché in realtà il raccomandato di turno è già pronto ad iniziare), iter di selezione estenuanti anche per posti che richiedono competenze minime (mi sono sentita dire che gestire un centralino è un’attività complicatissima e chiedere se sono in grado di reggere 8 ore al giorno!). Inoltre una grossa percentuale di responsabili d’azienda preferiscono un diplomato ad un laureato… Non conta se ti sei laureato con 110 e lode, se sei una persona seria, in gamba, con tanta voglia di fare, capacità e requisiti: ormai trovare un buon lavoro è solo questione di fortuna o di avere le conoscenze giuste. Sono delusa e demoralizzata. Penso che la mia laurea non servi a nulla e che sarebbe stato meglio cominciare a lavorare subito dopo il diploma: a quest’ora avrei un lavoro serio e ben retribuito. Non mi resta che continuare a cercare senza troppe aspettative…ma sempre con la speranza che un giorno o l’altro arrivi quel colpo di fortuna indispensabile per avere una possibilità in questo mondo così ostile ai giovani!!!”
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