Siamo davvero di una monotonia noiosamente disarmante. Se qualche frequentatore dell’Italia si assenta dalla terra degli spaghetti al pomodoro per una decina d’anni, quando vi farà ritorno crederà, inevitabilmente, di non essersene mai andato, perché, con molta probabilità, riascolterà le stesse parole e frasi che gli era capitato di sentire in passato. Perché le discussioni, i dibattiti, le litigate, gli anatemi che vengono riportati fedelmente dalla stampa è difficile che cambino a distanza di qualche anno, e, a volte, perfino a seconda dell’argomento.
Così appena si accenna, anche solo lontanamente, a qualcosa che riguarda, anche solo lontanamente, vita morte famiglia matrimoni gravidanze aborti, scatta un meccanismo automatico che segue tappe precise:
1- la scienza/l’evoluzione sociale/la semplice applicazione di leggi esistenti vincono una battaglia;
2- gli abitanti del Vaticano insorgono unanimi, gridando allo scandalo, bollando la nuova invenzione di turno come “delitto da scomunica”, minacciando quindi la dannazione eterna per chi approfitta di simili opportunità contrarie alla volontà di Dio; dopodichè invocano la saggezza e il buon cattolico senso dei politici (rigorosamente italiani) perché si adoperino per rimediare a questo inaccettabile rischio di fine del mondo;
3- i politici (che sembrano avere orecchie solo per le voci urlanti dei sacerdoti, e mai per quelle di lavoratori/sindacalisti/giudici nazionali e non/chi più ne ha più ne metta) innanzitutto si dividono con criterio in due fazioni: pro e contro quanto detto all’interno del colonnato, non tanto pro e contro rispetto alla questione di cui si discute;
4- poco dopo, il governo in carica (molto democraticamente, di qualunque parte politica sia) decide che probabilmente è il caso di fare qualcosa per quietare l’ira funesta degli eredi di Pietro, e butta lì qualche idea per una serie provvedimenti limitativi di quanto la scienza/l’evoluzione sociale/la semplice applicazione di leggi hanno determinato, con la consapevolezza che, forse (o sicuramente), quei provvedimenti non saranno mai approvati perché la discussione parlamentare sarebbe troppo complicata e lunga, e quindi inutile ai fini elettorali;
5- passa qualche settimana e tutto si sgonfia, per poi rigonfiarsi, in maniera del tutto simile, se non identica, qualche tempo dopo.
Insomma, siamo davvero di una monotonia noiosamente disarmante. Dopo più di vent’anni dall’approvazione della legge sull’aborto, una legge che riconosce (non concede. Le parole hanno un senso) il fondamentale diritto delle donne di scegliere se avere o no un figlio, periodicamente ancora ci ritroviamo a discutere se sia giusto o no, se sia o meno opportuno dare tutta questa libertà alle donne, se non sia opportuno tornare ai bei tempi in cui l’unica loro funzione era proprio quella di procreare un branco di altri uomini, che a loro volta avrebbero acquistato il corpo di una donna per continuare a procreare mentre controllavano il mondo. Capita il pretesto: l’ingresso anche in Italia della pillola RU486. E lo schema di anatemi, discussioni, provvedimenti senza futuro si ripete secondo il più classico dei copioni, per cercare di opporsi a qualcosa di esistente ed indiscusso altrove (e in molti altrove).
Stavolta, nel copione, c’è innanzitutto chi (Monsignor Fisichella, Sgreccia, Negri & co.) definisce questo strumento come un “veleno letale”, un “pesticida umano” e un “delitto” che comporta la scomunica; ma poi dimentica di appellarsi (come giustamente dovrebbe) alle cattoliche coscienze individuali delle donne, preferendo appellarsi alle cattoliche coscienze individuali dei parlamentari (che per la larghissima maggioranza, tra l’altro, sono uomini). C’è chi (Casini, presidente del Movimento per la vita) sostiene che l’utilizzo di questa tecnica “banalizza” l’aborto, che, a suo parere, “è diventato un fatto di massa, di routine”, e che in questo modo si “vuole cancellare fino in fondo l’idea che c’è di mezzo la vita di un figlio”; sapendo però che questo tizio non ha mai abortito (per ovvie ragioni biologiche, buon per lui) sorge spontaneo domandarsi come faccia a conoscere la devastante e devastata condizione fisica e psicologica che vive una donna che fa questa scelta: o è telepatico o ha una grande fantasia. C’è poi chi parla di “clandestinità legale” (Roccella, sottosegretario al Welfare), seguito a ruota da chi preferisce l’espressione “aborto fai-da-te” (Carlucci) dimenticando il piccolo particolare che non si sta riferendo ad una confezione d’aspirina, ma ad un “medicinale” che deve comunque essere somministrato in ospedale, che non ha certo le caratteristiche di un luogo clandestino. Tutti, infine, sottolineano come tale farmaco abbia (presumibilmente) causato 29 decessi, omettendo di ricordare che quando l’aborto era veramente clandestino ferri da calza e decotti vari uccidevano centinaia di volte più frequentemente. Tutti, infine, dimenticano, che, tanto per la cronaca, l’Italia è uno dei paesi europei con la più bassa percentuale di aborti (nel 2008 sono stati 121mila, il 4% in meno del 2007 e il 48% in meno del 1982).
Bagnasco ha detto che “Dove non c’è rispetto integrale della vita umana, la società è meno umana”. Giusto e condivisibile. Ma perché bisognerebbe rispettare di più la vita del feto (senza iniziare a discutere da quando comincia) che quella della madre, che una sua vera e piena vita già ce l’ha? Spulciando nella memoria sembra di ricordare che la Corte Costituzionale affermò la prevalenza della seconda sulla prima nel lontano 1975. Per la semplice e ovvia ragione che sono le donne a rimanere incinte, a partorire e, specie in paesi retrogradi come il nostro, a crescere i figli. In maniera ancora più semplice l’ha spiegato Emile-Etienne Baulieu, l’inventore della pillola abortiva, rispondendo alla fin-troppo-ripetuta domanda “Quando un ovulo fecondato diventa un bambino?”: "Ho due risposte. La prima è a partire dal momento in cui gli altri cominciano a riconoscerlo come tale. Nel caso della società a partire dalla sua nascita. Tuttavia, la seconda risposta mi sembra più precisa: tutto dipende dalla donna, dal momento in cui la donna comincia a sentire questo embrione come un nuovo essere. Quando una donna ha un ritardo, lo esprime giustamente così: "Ho un ritardo". Alcune settimane dopo, comincia a dire: "Sono incinta". Però ha bisogno di un tempo considerevole per dire: "Aspetto un bambino". E' soggettivo. E' tutta una questione psicologica." Proprio in virtù di questo processo mentale è evidente che le donne (sane di mente, e si spera anche i loro compagni uomini) si rendono conto che mettere al mondo un figlio non è come andarsi a comprare un vestito o un cellulare che se poi non ti piace puoi riportare al negozio e sostituire o disfartene; mettere al mondo un figlio significa assumersi una responsabilità permanente, che bisognerebbe avere il diritto di scegliere e, quindi, anche di non scegliere.