Quel giorno, per prima cosa, vidi uno spesso strato bianco.Fuori da quel vetro si apriva ai miei occhi un paesaggio da fiaba: le maestose fronde degli abeti, in cortile, erano appesantite da una coltre bianca di neve.
Alcuni merli si insinuavano fra i rami di una pianta arbustiva per cogliere
qualche bacca rossa, che creava un contrasto cromatico con il manto bianco,
che avvolgeva ogni cosa.
Quei merli leggiadri, nel loro volo affannoso alla ricerca di cibo, mi
riportarono alla realtà, alla chiara consapevolezza che un tragico
incidente, qualche mese prima, mi aveva spezzato le ali.
Subito mi resi conto del dramma che si era consumato nel mio corpo. Uscito
da un lungo sonno che, mi dissero, si era protratto per 72 giorni, il mio
letto d'ospedale era la mia trappola, era l'inizio del mio calvario.
Accennai un sorriso a Claudia, la mia fidanzata, che raggiante si era
protesa verso di me per baciarmi, per darmi il bentornato, dopo tanto tempo.
Alzai, con uno sforzo immane, il braccio destro, dal quale scorrevano in un
intreccio vorticoso tubicini e liquidi vari, così per salutare babbo e mamma
che, fuori dalla porta abbozzavano un sorriso trionfante.
Ma le gambe erano state sopraffatte dal sonno di Lete.
Non si risvegliarono mai più. Osservando il volo di quei merli, fuori dall'
ospedale, ebbi la consapevolezza che quel lungo sonno mi aveva portato via
le ali, per sempre.
In una rapida successione di ricordi e sensazioni, la mia mente fu
rimbalzata a quel venerdì sera, quando i miei progetti e le mie speranze per
il futuro si schiantarono a 120 Km/h contro un platano della provinciale.
La mia "Brava" si era accartocciata dopo l'impatto, lacerandomi la pelle,
procurandomi una piccola anticamera della morte.
Il mio cuore resistette alla tragedia, ma le mie gambe cessarono di vivere.
Da allora continuo ad interrogarmi sulla sorte crudele che si è abbattuta su
di me, tarpandomi le ali.
Non voglio più combattere, non voglio più essere oggetto di ortopedici e
fisioterapisti, che mi promettono quella redenzione, che non potrò mai
conseguire.
Le mie gambe sono morte per sempre, insieme ai miei progetti, il mio cuore
si è inaridito, non sussulta per un'emozione, che ormai nulla può
procurargli.
Ciò che ho scritto di getto su questa pagina bianca e che ancora mi ricorda
la neve, che avvolgeva tutto il paesaggio attorno a me, dopo il risveglio
dal coma, riassume il disagio profondo della mia condizione di chi respira,
senza vivere.
A chi ama il brivido della velocità e crede, come ne ero convinto io, di
essere più scaltro a governare la propria auto, vorrei lasciare il mio
testamento morale: se si prova, solo per un giorno, ad osservare lo scorrere
della vita fuori dalla finestra, si scopre quanto sia inutile condurre un'
esistenza inanimata."