IL CREMINO
L’oggetto è lì, sulla scrivania ingombra di libri, penne, fotografie, carte, quadri. L’orologio scandisce il sottile pulviscolo del battito del cuore…Flavia fissa lo sguardo nel vuoto, è assente, come se la mente fosse altrove e rimandasse ad una nebulosa, non ad una realtà concreta. “Allora”, dice a se stessa, “ha ragione il poeta, la vita è sogno”…
Spesso suo nonno Battista - il padre della madre di Flavia - veniva a trovare i figli e la nipote a Roma, lasciando la natia Calabria, Nicastro per la precisione, dove aveva un notissimo negozio di elettrodomestici e profumi sul Corso: per Flavia il suo arrivo era una festa. Piccola lei, maestoso lui. Sul letto della camera da letto dei genitori nell’appartamento romano del quartiere africano lei vedeva il nonno aprire la grande valigia (come quelle degli emigranti, ma lui certo non lo era, era un mago piuttosto) che conteneva regali, doni inconsueti – oh! la bella casacchina gialla, stile hawaiano, tutta colorata! – e tanti prodotti tipici della cucina calabrese, soppressata, ‘duja, provolone e pecorino di Crotone. Sì, il nonno amava stare ai fornelli e sapeva anche cucinare bene, era pignolo, preciso nello scegliere i prodotti migliori, gradiva il buon cibo. Flavia ricorda i pomeriggi in cui usciva con lui per accompagnarlo a fare la spesa dal droghiere sotto casa: lei così minuta e piccina alzava gli occhi verso di lui quasi temendolo, lui così grande e protettivo. Era burbero, il nonno, raramente lo aveva visto sorridere, non era affettuoso, le sembrava che non le volesse bene. Ma non era così.
Una volta - erano a Nicastro nella grande casa del centro storico, a ridosso del castello di Federico II, all’ultimo piano – il nonno le aveva chiesto: “Chi preferisci? Me o nonna Emma?” - la mamma del padre di Flavia, quesito che chiaramente evidenziava una punta di gelosia riguardo all’affetto della nipote che voleva tutto per sé.
Dopo pranzo, il nonno aveva un suo rito personale ed era quello di terminare il pasto con un dolce, di consumare un cioccolatino, sempre lo stesso. Quel gesto – di eliminare la carta e mangiare quella delicatezza -, quella forma si erano stampate nella mente e nella memoria di Flavia che torna a fissare l’oggetto sulla scrivania e ne scruta l’involucro. Prima, il classico incartamento dorato, una pellicola di stagnola; poi, una fascetta di carta azzurra che riporta il marchio della ditta produttrice e tanti piccoli quadratini marroni, celesti e dorati sparpagliati su tutta la superficie.
Se lo ricorda sempre così, il nonno, come nelle foto con lei appena nata, in canottiera (forse per il caldo, lei è nata a febbraio e le foto li ritraevano a luglio), con i pantaloni del pigiama, a piedi nudi e gambe incrociate, rilassato, in libertà. Il tempo si è fermato, cristallizzato in quello spazio e in quel momento lontano.
Flavia inizia a liberare la cioccolata dalla sua protezione di carta per aprire la confezione. Come se fosse la lampada di Aladino, ne esce tutta una miriadi di puntini colorati, tinti di ricordi: sua madre, suo padre, i nonni, gli zii…non era rimasto più nessuno. Solo quel cenno, mantra di un vivere solitario. Addenta con voluttà – si possono inghiottire le nostalgie? – il cioccolatino a forma di cubo composto da due strati di cioccolato gianduia inframmezzati da una pasta, una striscia più chiara: il cioccolato contiene nocciole e caffè. Sgrana gli occhi come a voler essere più presente e vigile nel compimento di quella azione, a voler assaporare con maggior tensione quel sapore che non è solo quello dell’infanzia o dei ricordi ma quello della sua stessa identità, delle sue stesse radici. La voluttà con cui sgretola il dolcetto è pari al piacere con cui vorrebbe tornare indietro nel tempo ed essere di nuovo piccola, ancora bisognosa di coccole e tenerezze.
“Nonno, nonno….dove sei? Per favore, dividiamo ora insieme il tuo cremino?”.
Fausta Genziana Le Piane