Senza sogni siamo niente
Senza sogni siamo niente
Adriana Assini e l’ultimo romanzo, Un caffè con Robespierre

Senza sogni siamo niente

Una nuova sfida al femminile per Adriana Assini con questo suo ultimo libro Un caffè con Robespierre, Scrittura & Scritture, 2016.
Parigi 1793 - L’irrequieta Manon, affamata di eroi mai stanchi,  è la protagonista, un tempo al servizio della regina fino alla presa della Bastiglia, ora modista. Suo marito, Bertrand, Monsieur le maître, non a caso fa il cuoco. Lo sfondo è quello della Francia rivoluzionaria, piena di sogni e speranze.
Il vero protagonista di questo romanzo è il cibo, metafora e pretesto per introdurre vari temi: La cucina di una società è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttu-ra, dice il famoso filosofo Claude Levi Strauss. Già in altre occasioni ho notato come questo ele-mento fosse presente nelle pagine dei libri della scrittrice ma qui, più che altrove, tutto tiene, il cibo, il marito cuoco - novello Bocuse - e una terra reputata per la sua cucina, paradiso dei gour-mets - la Francia.
Ecco l’incipit del nuovo romanzo: Il fricandò era pronto, la tavola apparecchiata. Nella cu-cina dei Blondel, una festa di odori dolciastri e pungenti, tra cipolle candite, salse al pepe nero, soffritti (p. 7). Una vera e propria dichiarazione d’intenti. Esaminiamo gli elementi in campo: il fricandò è un medaglione di vitello lardellato, dunque un cibo raffinato; la tavola apparecchiata evoca i dodici apostoli intorno alla tavola del Cenacolo e richiama la Tavola Rotonda dei Cavalieri del Graal. Dovendo ricevere il Graal nel suo centro, la tavola è l’immagine di un centro spirituale. Quanto alla cipolla, il suo odore provocherebbe un sentimento di potenza vitale, le sono attribuite anche virtù afrodisiache. La cipolla tornerà più avanti: esclamò elogiando il battuto di scalogno che accompagnava il bollito di manzo. Finse quindi di voler sapere se fosse vero che quella cipolla dal nome esotico fosse stata portata in Francia dai Crociati di ritorno dalla Palestina (p. 94). Dunque, ricapitolando, nel libro si parlerà di raffinatezza, di alta società, di opulenza, di bello, di spettacolo ed estetismo (e qui il cibo raggiunge il teatro); si parlerà di ideali nobili, di spiriti liberi, di idee singolari, di purezza; si parlerà di un uomo che, occupato ad abbellirsi lo spirito, sembra aver dimenticato di avere anche un cuore; si parlerà di forza, di determinazione.
Bertrand, chef di razza, fedele alla tradizione ma attento alle novità, è un uomo pratico, concreto e l’occupazione della cucina ben gli si addice, è concentrato sul suo lavoro. Per lui l’arte culinaria è un’ autentica ragione di vita, come per Bocuse: Davanti ai fornelli, emanava lo stesso fascino di un capitano di marina in alta uniforme, grazie a un impeccabile grembiule d’ordinanza e alla cuffia bianca con un grosso fiocco laterale (p. 10). E’ convinto che per esercitare al meglio l’arte di Apicio occorresse arricchire ciascun piatto con citazioni, allegorie, curiosità, rivelazioni a effetto (…) Cucinare, secondo lui, significava civilizzare la natura (…) (pp.95-96). La cucina è la na-tura stessa di Bertrand, la sua apparenza e la sua sostanza. E’ a cena che chiede a Manon di spo-sarlo, solo dopo averla deliziata con il buon prosciutto d’hiver affogato nel borgogna e rosolato al punto giusto, a fuoco lento (p. 10). Addirittura il cibo diventa per lui un modo di vestire: l’anguilla à la moutarde primeggiava tra i suoi piatti forti; d’ocra gialla (il colore della mostarda) erano le calze, il fazzoletto di seta e il panciotto (….) (p. 60), il tutto imitando gusti semplici….quelli del Re Sole! Anche Jérôme, il suo amante, Manon l’aveva conosciuto complice il cibo, cioè assaggiando con cautela i pomidori, che lì a Parigi non s’erano mai visti dentro ai piatti ma soltanto nei giardini (…) (p. 45). Tutte le tappe della vita passano attraverso il cibo. Anche i modi di dire sono a sfondo culinario: camino spento, L’ammore è comm ‘na pastacrisciuta, va mangiata calda! Persino i qua-dri hanno come argomento due pernici (p. 97)! Il cibo è un modo per esprimere i propri senti-menti e stati d’animo. Rabbia: Manon scola un bicchierino di sciroppo alle pere (p. 12) con stizza perché nel suo battibecco con il marito attacca con forza Maria Antonietta mentre Bertrand la di-fende e la giustifica. Oppure dolore: Stavolta Blondel trasalì. Andò alla credenza e dopo essersi versato due dita della buona acquavite di Cognac, si disse addolorato per quella che riteneva una sciocchezza, oltre che una deprecabile mancanza di fiducia nei suoi confronti. (p. 14). Cosa si fa per rassegnarsi alla barbarie? Basta scolarsi il solito goccetto: da notare l’uso del verbo che non indica il semplice atto di bere ma di bere con ingordigia. Oppure ristoro, occasione per fare la pace: Corse, dunque, a controllare un impasto lasciato a lievitare nella stufa: Lo infilò nel forno…(p. 35). Oppure riconciliazione tramite la seduzione del palato: Posta la polvere di caffè a bollire nel bricco di rame, tolse dal forno una grossa brioche dorata e la innaffiò con uno sciroppo al vino di Malaga. Arricciò il naso: un babà senza uvetta di Corinto era come una rosa senza odore (….). Sublime, mormorò Manon (….)(p. 36-37). Oppure il definitivo addio: un arrosto al vino rosso con le erbette di stagione, dono d’addio di Bertrand a Manon. O, infine, desiderio di conoscenza: Lungo la strada, sì arrestò davanti a questo o quel banchetto, curioso di toccare, assaggiare, odorare il bendidio che gli si parava davanti agli occhi (p. 112). Il cibo serve anche ad evocare i colori, per esempio, il giallo intenso della mostarda di Lione (p. 17) e corrisponde al ceto sociale. Così, per festeggiare l’anniversario di nozze di una coppia di marchesi che la Rivoluzione aveva alleggerito della boria, ma non dell’appetito, in tempi di pace Bertrand gli avrebbe preparato ostriche in foglia di spinaci e fricassea di rognoni con salsa leggera al profumo di limone ma in mancanza del meglio, aveva portato in tavola un leprotto arrosto innaffiato con il bordeaux, seguito da un nido di cavolfiori insaporito con soffice burro alla lavanda (p. 55). Chiudendo con un formaggio a pasta molle e pere in giulebbe (p. 56). L’eleganza e la raffinatezza tornano sempre: Trancio di merluzzo al profumo d’aglio? Piatto ordinario; Beauvilliers non era forse chef del principe di Condé? Ma il  cibo evoca anche i prodotti tipici della terra e dell’economia francese, sono il segno di un’identità nazionale che va dal bouillon al Cognac, dal pâté all’erba cipollina al cassoulet, dalle pere bon-chrétien all’angélique di Bordeaux. E non solo francese. Quando Bertrand è a Napoli scopre la diversità culinaria di un altro Paese, è partecipe di un’amabile gara tra le ghiottonerie d’Oltralpe e quelle campane (p. 159): un forte odore di grasso contendeva la supremazia a quello dell’aglio che rosolava in una grossa padella di rame. Dal soffitto pendevano pezzi di lardo e prosciutti. Tra spiedi, taglieri, marmitte di ferro, vasellame di coccio e stoviglie sparse alla rinfusa la confusione era alle stelle, anche se, a colpo d’occhio, quel disordine  tradiva un’anima, seguiva una sua grammatica…(pp. 124-125). Non si tratta certo dell’ordine e della razionalità cartesiana francese, sono due cucine a confronto, due culture, due Paesi, due integrazioni: aveva consegnato a don Liborio la ricetta della “neve di latte” di Vatel, in cambio di quella delle “triglie imbrocciate” del Corrado (p. 176). Certo l’aglio protegge dalla cattiva sorte e Bertrand ne ha bisogno, però i Batak del Borneo accordano all’aglio il potere  di ritrovare le anime perdute: forse Bertrand cerca l’anima ormai lontana e persa di Manon? Bertrand, spaventato, ancorato all’Ancien Régime (non è per questo che ama l’aristocratica eau-de-vie?), non sa affrontare i cambiamenti e non si capacita che la moglie si ammanti del tricolore, fiuti tabacco e legga giornali sovversivi, veda il suo eroe in Robespierre. Non è davanti a una tazza di caffè bollente che Manon sogna di chiacchierare senza ossequi né finzioni con lui? Non si ragiona meglio con qualcosa di caldo nello stomaco? Non solo, per breve tempo frequenta le riunioni di un’associazione che proclama la parità dei sessi perché Manon è un’anima ardente, ha alti e puri ideali, ambisce all’incendio, al batticuore perenne (p. 34), ama la Francia, stima Rousseau e sogna giustizia ed uguaglianza. Preparo un buon caffè? Frase tipica. E Voltaire non beveva forse quaranta tazze al giorno  perché era sicuro che lo aiutassero a pensare? Non si sa forse che le donne sono più duttili degli uomini e più capaci di fiutare i mutamenti e di adeguarvisi? Le parti si sono invertite: come una volta si diceva alla donna: “Stai zitta tu che non capisci niente, il tuo posto è in cucina”, è Manon che dice al marito che la politica non fa per lui e che è meglio che sfaccendi tra i fornelli e continui a occuparsi di salse e di minute. Anche perché un uomo dovrebbe dare il meglio di sé in camera da letto e non in cucina. Il punto culminante di questa metafora è quando Bertrand fa mangiare a Manon, a sua insaputa, il cuore arrosto del suo spasimante morto, Jérôme. Un’azione vendicativa e feroce che richiama alla mente la crudeltà delle parole della canzone di Fabrizio de André, La canzone dell’amore cieco. Mangiare il cuore significa voler incamerare la parte amata, farla propria, succhiarne la linfa vitale, l’energia. Il cuore, organo centrale dell’individuo, corrisponde in genere alla nozione di centro, al centro vitale dell’essere umano, in quanto assicura la circolazione del sangue. E’ per questo che è preso come simbolo delle funzioni intellettuali e della volontà. Se l’Occidente ne fa la sede dei sentimenti, tutte le civiltà tradizionali vi localizzano al contrario l’intelligenza e l’intuizione: forse il centro della personalità si è spostato dall’intellettualità all’affettività Ma non diceva Pascal che i grandi pensieri vengono dal cuore? Forse Manon vuole inglobare la parte maschile di cui va in ricerca…
Veramente notevole, come sempre nei romanzi della Assini, la ricostruzione storica, anzi qui la Storia è la vera protagonista, storia di cui la Assini è assoluta padrona: il movimento e lo scontro di idee tra reazionari e progressisti, le figure del camaleontico Fouché, di Olympe de Gouges, di Danton, il vecchio leone (non si può non pensare al Danton di Andrzej Wajda, 1983, con Gérard Depardieu), dell’Indulgente, di Saint-Just e di Robespierre e, soprattutto, la vita  dei teatri e dei caffè dove si riscrive la storia della Francia. Su tutti primeggia la figura di Robespierre, dedito al culto dei principi e indifferente verso il denaro: Impettito, come sempre elegante, sfoggiava un abito verde oliva con la cravatta bianca. Lui, capo dei Giacobini, preferiva vestire all’antica. Dell’amata Rivoluzione, non aveva mai indossato i panni: niente berretto frigio né carmagnola o pantalone lungo (p. 78); Sotto una scorza austera, il cittadini Robespierre nasconde un animo languido. Immaginereste che in gioventù fosse membro della Società dei Rosati di Arras? (p. 91). Robespierre, insopportabilmente onesto: Oh, la vita! L’abbandonerò a loro senza rimpianti! Ho l’esperienza del passato, ed intravedo l’avvenire. Quale amico della patria può mai voler sopravvivere nel momento in cui non gli è più permesso di servirla né di difendere l’innocenza oppressa? Perché mai vivere in un ordine di cose in cui l’intrigo trionfa continuamente sulla verità, in cui la giustizia è una menzogna, in cui le più vili passioni, in cui i timori più ridicoli occupano nei cuori il posto dei sacri interessi dell’umanità? (Robespierre, Discorso dell’8 termidoro). Il libro della Assini ripropone il tema della riabilitazione della figura di Robespierre, capro espiatorio impeccabile di un periodo tragicamente grande (p. 167): Ci sembrava difficile ammettere che l’uomo di stato che godette da vivo di una popolarità immensa quale non ce ne fu mai e la cui morte lasciò un vuoto tale che la repubblica ne fu scossa fin nelle fondamenta, non fosse stato altro che un mediocre politico quasi privo di talento; ci sembrava impossibile credere che colui che i sanculotti soprannominavano l’Incorruttibile non fosse stato che un ambizioso senza scrupoli che della virtù aveva solo la maschera (Albert Mathiez, Robespierre, New Compton. 1976-Perché siamo robespierristi, pp. 17-18).
Grazie al Teatro, dove si corre per unire il divertimento all’istruzione, il popolo è educato, la cultura e lo svago sono alla portata del volgo. E’ proprio per questo che si parla di Vaudeville, cioè commedia leggera, ricca di quiproquo, equivoci e sorprese. Sembra che il termine indichi raccolte di canzoni pubblicate nel sec. XVI, dette “voix de ville” per sottolineare il loro carattere popolare rispetto a quelle di corte. Nel 1792 fu aperta a Parigi una sala dedicata esclusivamente a questa nuova forma di spettacolo, ma il successo fu tale che presto anche altri teatri ospitarono spettacoli vaudeville. Gli autori più celebri furono Eugène Scribe e Eugène Labiche. I caffè sono punto di incontro di gente interessante, dove i giornali venivano messi a disposizione dei clienti e le idee circolavano di pari passo con i pettegolezzi e le fandonie. (p. 26); Tra nuvole di fumo e aromi penetranti, alcuni degli Indulgenti giocavano a domino, altri passavano al vaglio i giornali, accatastando in un angolo quelli di cui non condividevano le idee, con i quali avrebbero fatto un falò uscendo dal locale. Vestiti per lo più di nero, il colore adottato da molti rivoluzionari per annullare le differenze sociali, quei signori trangugiavano rosoli, benché il vanto dell’antico Caffè fossero stati i sorbetti all’anice e i gelati, i fiori all’occhiello di Procopio, il pasticcere siciliano che l’aveva fondato cent’anni prima (p. 40). Il caffè Procope è stato il primo caffè di Parigi e, secondo molti, anche il più antico caffè d'Europa.

Fausta Genziana Le Piane
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