La storia è un corpo vivo: intervista ad Adriana Assini
La storia è un corpo vivo: intervista ad Adriana Assini
La storia è un corpo vivo: intervista ad Adriana Assini

-Che cosa ci insegna oggi la storia?
Principalmente, che essa stessa è un corpo vivo, duttile, dinamico, capace di rigenerarsi grazie a nuovi studi e a nuove scoperte, comprese quelle archeologiche. Scoperte che a volte sono in grado di modificare anche radicalmente le informazioni in nostro possesso su un determinato evento. Per stare a un caso che mi è particolarmente caro: fu proprio nel corso delle sue ricerche negli archivi di Simancas che uno studioso del XIX secolo scovò documenti di importanza tale da gettare una luce completamente inedita sulle vicissitudini di Giovanna I di Castiglia, passata impropriamente alla storia come La Pazza.
-Nelle traduzioni trovi che parte del tuo linguaggio vada perso?
È inevitabile. Non a caso si dice “tradurre è tradire”. Le parole non hanno mai lo stesso suono, nemmeno la stessa lunghezza, e a volte anche il significato presenta sfumature diverse tra una lingua e l’altra. Un esempio: nella versione spagnola del mio romanzo “Le rose di Cordova”, la frase che in italiano recita “se fossi stata più attraente”, in castigliano diventa “si hubiera sido más atractiva”. Un’altra musica.
-Il pubblico straniero reagisce in modo diverso da quello italiano?
Soprattutto quello spagnolo per il quale hai una certa preferenza. Lo scorso ottobre ho presentato a Bruxelles “Le rose di Cordova” (Scrittura&Scritture), nel quale narro le vicende di Giovanna di Castiglia. Il pubblico presente, di varie nazionalità, era attento, curioso, partecipe. Immagino che tanto interesse per la storia della sfortunata regina derivi in realtà da un più generale interesse per la Storia tutta. Lo stesso vale per l’esperienza spagnola dove, tra l’altro, “Las rosas de Córdoba” è stato inserito tra le letture obbligatorie della Facoltà di Filologia Italiana dell’Università di Oviedo.
-Che relazione esiste tra la pittura e la scrittura?
Di primo acchito, sembrano mondi diversi, in realtà, entrambe le forme espressive raccontano storie, trasmettono emozioni. L’una, la scrittura, con la forza evocativa delle parole; l’altra, la pittura, grazie al gioco delle forme quando incontrano il colore.
-C’è uno scrittore a cui ti ispiri sia nel linguaggio che nelle trame?
Va da sé che il bagaglio culturale di ciascuno di noi è il risultato, in continua evoluzione, di tutto ciò che si legge e si studia nel corso degli anni, e dunque, carico di molteplici influenze. Mi piace molto Borges, ma dubito che se ne trovi traccia nei miei romanzi. Adoro “Memorie di Adriano” della Yourcenar, e tuttavia – ahimè! - non è pensando alle gesta del grande imperatore che ho scritto, per esempio, “Il mercante di zucchero”.
-Quante lingue conosci?
Parlo correntemente francese, mi difendo con lo spagnolo, prendo la sufficienza in inglese.
-Che tipo di dimensione interna ti restituisce il racconto rispetto al romanzo?
Il racconto è per me un divertissement, un esercizio e una sfida. Esige brevità, ma non a scapito dei suoi “ingredienti”, che sono gli stessi del romanzo: ritmo della narrazione, definizione dei protagonisti e degli ambienti...Tutto, però, concentrato in una manciata di pagine. Dal racconto imparo a eliminare il superfluo e ad esaltare “in poco spazio” i significati e i sentimenti.
-Quando e dove scrivi?
Dopo il tramonto, alla scrivania. Ma può accadere ovunque, in treno o al Caffè.
-Che cos’è la scrittura per te?
Un grande piacere, una grande passione. Anche uno strumento utile per
comunicare il mio mondo agli altri attraverso le storie che racconto e il modo in cui le racconto.
-Sei stata tentata dalla poesia? E dalla saggistica?
Grazie a una mia poesia vincitrice di un concorso di provincia, ho scoperto Sant’Agata dei Goti, una delizia del beneventano. Per un’altra, sono stata premiata nella splendida cornice delle antiche seterie di San Leucio. Bellissime esperienze per una che non sarà mai una poetessa. La saggistica, invece, mi annovera dalla sua parte come accanita lettrice. Nessuna ambizione, invece, come autrice.
-Cosa c’è di autobiografico nelle donne che racconti?
Scrivo di donne, sì, ma anche di uomini. I miei romanzi “Gilles, che amava Jeanne”; “Nella foresta di Soignes”; “Il mercante di zucchero” sono tutti al maschile. Cosa c’è di me nelle protagoniste e nei protagonisti delle mie storie? Forse, una certa insofferenza verso il perbenismo ottuso d’ogni epoca, le convenzioni sociali di retroguardia, l’arroganza dei potenti.

Fausta Genziana Le Piane
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