Oggi le donne hanno una duplice aspirazione: la formazione di una famiglia ed un percorso professionale, secondo le loro aspettative, i loro progetti di vita e i loro studi. Questo diritto in Italia però è negato, per cui spesso la donna si trova costretta ad un aut aut, in quanto la carriera professionale si contrappone ancora alle scelte familiari.
Soprattutto le laureate di fronte alla previsione di dover abbandonare una carriera lavorativa, ottenuta dopo anni di sacrifici e di studio, si trovano costrette a rinunciare alla maternità o nel caso migliore a rimandarla sempre più avanti nel corso della vita, con inevitabili effetti sia sul tasso di fecondità totale, sia sul fatto che dopo i 35 anni i rischi connessi con la gravidanza aumentano notevolmente.
Ancor oggi nel nostro paese, infatti, lo stato civile e la maternità condizionano in modo rilevante la partecipazione al lavoro delle donne appartenenti alla classi centrali di età. Al di là di quanto si dice e si scrive, infatti, i due termini, maternità e lavoro, sono vissuti nel pensiero e nella cultura contemporanea come antitetici.
Che il lavoro femminile sia un ostacolo alla maternità però è un pregiudizio da sfatare. Oggi infatti, a differenza del passato, la fecondità è maggiore nei paesi con tassi più elevati di occupazione femminile, mentre in Italia abbiamo sia il problema della denatalità, sia quello dell’occupazione delle donne.
La questione consiste soprattutto nel fatto che la maternità è considerata da parte dei datori di lavoro come un ostacolo alla produttività e come un aggravio di spese per le assenze dovute per la gravidanza e per i figli.
Da uno studio dell’Università Bocconi sul costo della maternità a carico dell’azienda arriva però una smentita. Chiara Paolino, che insegna Gestione delle risorse, ha quantificato (per la prima volta) il costo della maternità: “è un costo ridicolo. Una quota che corrisponde allo 0,23 per cento dei costi diretti e indiretti del personale. Si tratta cioè di una cifra irrisoria rispetto alle altre spese che sostiene l’azienda. Quello che pesa è piuttosto il costo dovuto alla gestione dell’incertezza e alla riorganizzazione del lavoro di quelli che rimangono” , al reintegro ed all’aggiornamento della lavoratrice madre. Disagi che potrebbero essere minimizzati da una diversa organizzazione del lavoro.
Il problema quindi non è rappresentato dai costi della lavoratrice madre, ma è inerente all’organizzazione del lavoro, anzi la donna deve essere riconosciuta come un valore aggiunto. Le aziende perciò devono accettare la sfida per pensare alle persone in termini di risorse e per ammettere anche il punto di vista femminile al fine di operare un riequilibrio gestionale che preveda la diversità, in quanto portatrice di innovazione.
Il problema di fondo comunque consiste nel sistema di welfare italiano che non riesce a garantire alle famiglie una conciliazione oggettiva del lavoro casalingo con quello esterno, per cui sono ancore molte le donne che abbandonano il lavoro dopo la maternità, oppure per mantenere i due ruoli sono costrette a fare i salti mortali. Al contrario nei paesi dove la donna è tutelata, la sua partecipazione al mercato del lavoro è maggiore e di migliore qualità.
Di conseguenza anche per la mancanza di efficaci politiche di conciliazione, che finisce con l’aggravare una situazione difficile già in partenza, la maternità diventa un problema e difficilmente si potrà modificare questa situazione, finché essa sarà considerata solo un fatto privato e non le verrà conferito il giusto riconoscimento e valore sociale.
C’è un altro pregiudizio sociale da sfatare: la considerazione negativa circa la partecipazione delle madri ad un lavoro fuori casa per le conseguenze che questa scelta possa avere sul benessere dei figli e delle famiglia. Questo pregiudizio comporta spesso l’autoesclusione delle donne dal mondo del lavoro. In questo caso è responsabile non tanto il problema oggettivo della difficoltà di conciliare la vita professionale con quella familiare, quanto il senso di colpa che le rende timorose di non svolgere al meglio sia il ruolo di madre, che quello di lavoratrice. Spesso difatti le donne, insieme a difficoltà che sono concrete, ne vivono altre che non sono reali o oggettive, ma sono la risultante di quei condizionamenti sociali che le fanno sentire inadeguate come madri e limitate sul lavoro. In realtà l’esperienza e le varie ricerche scientifiche dimostrano che il bene dei figli dipende non dalla quantità delle ore di presenza della madre, ma dalla qualità del tempo che da lei viene dedicato alla famiglia e dal tipo di relazione che riesce ad instaurare. Anzi spesso è proprio il lavoro fuori casa della madre a sollecitare nei figli un maggior senso di responsabilità e di autonomia nello svolgimento dei propri compiti e delle proprie mansioni.
Un estratto dall’ebook di Noemi Di Gioia “ Uguaglianza o differenza di genere? Un saggio scritto per le donne ma soprattutto per gli uomini”, Ed. ePubblica, 2012, ISBN: 9788897849070
http://www.epubblica.com/ebook/uguaglianza-o-differenza-di-genere-16.aspx