Michela Sacchi, story teller italiana residente in Inghilterra, ha dato alla luce un romanzo avvincente e coinvolgente, ricco di emozioni e sentimenti.
Nel suo lavoro, “Di qua del ponte”, edizioni i “Fiori di Campo”, l’autrice prende spunto dalla quoti-dianità degli anni Sessanta per analizzare, tramite l’animazione personaggi impreziositi da penetran-ti graffi dell’anima, alcune tematiche esistenziali relative ai valori umani, alla dignità e alle diverse forme e sfaccettature che l’amore può assumere.
Gli interpreti del testo devono affrontare loro stessi, il loro passato ed il mondo attuale in un’atmosfera di repentini mutamenti sociali per poter giungere al di là del ponte.
Il testo ha un tono gioviale ed un ritmo vivace, grazie all’utilizzo discorsivo e scorrevole del lessico; è costituito inoltre da molteplici dialoghi, atti a dare al lettore un ritratto più peculiare possibile del personaggio.
Le riflessioni introspettive danno al lettore la possibilità di aprire uno scorcio sulla riflessione per-sonali e risultano efficaci a designare le personalità dei diversi soggetti.
Ad esemplificazione di tale affermazione, vi è il pensiero di Francesco, uno dei giovani protagonisti che affronta la sua adolescenza con difficoltà, a causa principalmente del contesto sociale.
“ “Dove vai?” si ripeté.
Potesse davvero decidere!
Dove? Aveva importanza dove?
Via da quella cittadina e dalla piccola gente che l’abitava; via dalle case un po’ scrostate, dalle viuzze di porfido, dalla chiesa con la sua campana così nota e scontata, sempre precisa, sem-pre puntuale, mai un tocco mancato, che infallibilmente tornava a ritmare una vita altrettanto mono-tona e prevedibile; via dalla piazza, con la sua sempiterna fontana gorgogliante e il grande tiglio che stava lì da cent’anni, forse più, sempre uguale, una stagione dopo l’altra, un anno dopo l’altro, im-moto.
Potesse davvero andare! Qualsiasi posto al mondo era meglio che lì!
Ma era sempre solo la camminata verso il baretto, con i soliti amici, le lambrette parcheggiate fuori, le canzonette del juke-box e il biliardo. Le solite facce, le solite voci, le solite cretinate…
“Meglio che starsene a casa a studiare” si disse, e già sentiva le risa e la musica che gli arrivavano dall’altra parte della piazza. Ed era tutto lì, come se l’era figurato: lambrette, tavolini di plastica, colpi di stecca e suono di bocce sul tavolo da biliardo. ”