“Adesso tienimi” è un libro che entra e parla da dentro il dramma. Il titolo sembra una preghiera, una supplica al non essere abbandonata rivolta a una persona che, in realtà, se n’è già andata. Almeno fisicamente.
I ricordi si intervallano ad una quotidianità vissuta a fatica, combattendo tra l’apatia e il dolore. Un ambiente scolastico difficile, una famiglia dalla mentalità antica, una città ostile e degli amici interiormente infelici impoveriscono le giornate della protagonista, Martina, sempre più attanagliata dal dolore e da un passato che ha indelebilmente segnato la sua vita. Niente e nessuno, però, conosceva il lutto che lei teneva dentro e che portava il nome di Vianello, un uomo conosciuto da tutti in un ruolo completamente diverso da quello del fidanzato di Martina. Una storia nata come apparentemente sbagliata, e morta proprio durante la nascita dell’amore da parte della ragazza.
Lo stile stringato e graffiante si adatta perfettamente al drammatico racconto che viene srotolato in un lessico asciutto ma ugualmente accurato; il lettore è quindi sempre incentivato a proseguire in una lettura accattivante e irresistibile.
Ne parliamo con l’autrice, Flavia Piccinni.
La felicità è nello scrivere una storia o nel sentirla propria?
Non credo di poter parlare di felicità. È una sensazione, un piacere, che la supera largamente e che ho provato nel pensare continuamente a Martina e alla sua storia, sentendo tutto il suo mondo, di conseguenza, totalmente mio.
Se dovessi dare un nome a questa sensazione, come si chiamerebbe?
La chiamo mini/max ed è sentire nelle dita insieme il piccolo e il grande, contemporaneamente. E’ come quando stai aspettando una risposta importante e pensi che andrà tutto male, solo che in questo caso la risposta non arriva fino a quando non metti il punto finale e la storia si chiude.
Nel tuo romanzo la morte sembra viva, e non la vita morta. La morte, quindi,
non sembra rompere con la vita, non del tutto almeno. È l’amore di Martina
che, in qualche modo, tiene in vita Vianello?
Più che l’amore è la desolazione di Martina a esasperare il ricordo di Vianello, rendendolo vivo in ogni momento della sua vita; opprimente e assurdamente amorevole come mai era stato prima. Il ricordo di questo uomo-bestia è la vita che c’è nelle pagine, una vita sottile e allo stesso tempo pesantissima, di cui Martina avverte ogni leggera vibrazione.
L’ispirazione, per te, assomiglia più a una scintilla o a una fiammata?
Credo che ci siano delle cose bellissime, anche, soprattutto, nella quotidianità, che hanno un potere così forte e devastante, una carica di armonia, di estatica bellezza, da non poter essere trascurate. Per me l’ispirazione è una fiammata che mi brucia la faccia, che mi fa commuovere al semaforo quando vedo, nella macchina in fila accanto a me, un bambino che soffia sul vetro per poi disegnare sul suo fiato; una donna che urla perché un piccione le si è posato sulla spalla. Sono queste le ispirazioni che mi alimentano e allo stesso tempo di distruggono, idee improvvise che per me hanno un valore reale.
Che rapporto hai con il successo?
Credo che sia un rapporto di reciproca ignoranza.
Cosa ha significato, per te, la vincita del Premio Campiello Giovani?
È stato un bel momento e adesso è solo un bel ricordo. Sono molto legata al premio, alla fiducia che mi ha dato e all’attenzione che mi ha regalato. È stato importante per me sapere che quello che facevo poteva avere una forza non solo nella mia testa, ma anche per qualcun altro. Non riuscivo a credere neanche di essere arrivata in finale e quando alla presentazione hanno pronunciato il mio nome sono rimasta immobile aspettando che succedesse qualcosa. Che qualcuno si alzasse.
Le descrizioni di una Taranto degradata e retrograda rappresentano lo specchio degli stati d’animo di Martina?
Credo che Taranto sia tutto fuorché una città degradata, tanto meno retrograda. È una città che sta vivendo un momento difficile, proprio come Martina; non avrei saputo, né potuto, ambientare in un posto diverso questa storia. Martina ha la sua città tatuata sotto le unghie, incavata dentro al cuore, e il suo malessere trova specchio nel malessere dei suoi concittadini, in quello della città che respira aria malata e si ammala; sospinta da una voglia di cambiamento, ma ancorata al passato.
Alcuni personaggi, però, sembrano proprio retrogradi. Ad esempio, alcuni parenti di Martina come Mina e Salvatore sembrano rivestire lo stereotipo della famiglia meridionale.
Gli stereotipi sono alimentati, in molti casi, dalla realtà. E questo è uno di quei casi. Mina e Salvatore sono frutto di una società che non dà vita e non alimenta a caso, ma che forgia unicamente attraverso l’unico omologante stampino. E per questo che non credo siano stereotipi ma fotografie di sensazioni, modi di pensare e di comportarsi comuni. Cerco sempre di andare oltre la fotografia unidimensionale, di scavare nei miei personaggi. Le macchiette non interessano a nessuno, sono di una bruttezza devastante. Mina, Salvatore, Virgilio, Michele, Adriana sono figure forti, con un loro carattere, con delle abitudini meridionali proprio perché sono meridionali, ma non mi sento di definire nessuno dei loro atteggiamenti retrogradi. Hanno le spalle e il corpo al passato, ma Martina che è figlia dello stesso anestetizzante ambiente guarda al futuro.
Ti senti più protagonista o regista di ciò che scrivi?
Questa volta mi sono sentita una pedina, manovrata insieme a Martina. L’impatto emotivo, il dolore, la sofferenza che racconto mi hanno trascinato in un vortice dal quale mi è stato impossibile scappare. Non mi piace prendere le distanze dalle storie che racconto, le voglio sentire mie, in questo caso però la forza è stata devastante.
L’indifferenza del mondo scolastico che racconti è imbarazzante quanto reale, talvolta persino crudele. Credi che un’esperienza del genere possa essere una cicatrice che resta o una botta che lentamente scompare per chi la vive?
A distanza di pochi anni non riesco a valutare la mia esperienza scolastica. Elementari, medie, superiori sono immagini confuse, non ricordo le facce e le lezioni, ma quel senso di impotenza, di rabbia e di fastidio, di ipocrisia.
Credo che tutte le esperienze, anche le più insignificanti, perfino nell’ordine in cui avvengono, siano solchi profondi. E in Martina, anche se apparentemente invisibili, i tratti lasciati dal comportamento degli insegnanti e dei suoi compagni di classe, della routine scolastica, sono devastanti. Ho cercato di raccontare quello che ruota intorno alla scuola non nel modo diretto in cui l’ho vissuta – ovvero concentrandomi su singolari episodi o atteggiamenti conosciuti e vissuti da me in prima persona -, ma cercando una generalizzazione che venisse fuori da un sentire caro e comune; sforzandomi di mostrare nella loro perfida innocenza quei professori bulli che continuano a perseguitare gli studenti anche fuori dall’orario scolastico. Come Vianello e come l’insegnante di greco e latino, che non abbandona mai la sua idea di superiorità e si mostra nella sua violenta e disperata piccolezza.
Per scrivere un romanzo ci vogliono più batticuori, pensieri o brividi?
Vengono tutti insieme, a seconda della storia. Per Adesso Tienimi non so cosa abbia avuto più rilievo per me, forse la tensione per affrontare quel tema caro che mi è l’abbandono. E per il mio nuovo libro è tutto ancora più amplificato, più forte. Ho pensato alla frase iniziale per cinque mesi e ancora adesso a volte penso ad una frase per delle ore e tutto quello che nel frattempo sto facendo – mangiare, chiacchierare, parlare al telefono, lavorare – non esiste. In quel momento esisto solo io e le mie parole.