Se Il Racconto fosse un uomo, che tipo sarebbe e come vestirebbe?
Un racconto per attrarre il lettore deve avere ritmo e una idea di fondo, una trama molto forte. Deve essere diretto e lineare, eliminare il superfluo e aggredire i tempi morti per eliminarli. Non si deve nascondere dietro giri di parole inutili che non farebbero altro che distogliere l’attenzione del lettore dal reale significato del testo. Il racconto è un uomo carismatico che conosce e rispetta i tempi, che sa usare la sua voce e la sua gestualità nel modo corretto, evitando sia i toni troppo accesi che quelli anestetizzanti.
Il Ferdinando Pastori di “Piccole storie di nessuno” cos’ ha di affine e cosa di differente dal Ferdinando Pastori di “No Way out”?
No Way out è il mio primo romanzo e la mia seconda pubblicazione con Edizioni Clandestine. La prima risale a circa un anno prima ed era una raccolta di racconti brevi che, pur se distinti gli uni dagli altri, avrebbero potuto facilmente fare parte di un’unica narrazione. I racconti rivelano la mia passione per la scrittura minimalista, essenziale e lineare…per intenderci quella di un maestro come Carver e di quella generazione di scrittori americani neo-minimalisti che hanno lasciato il segno negli ultimi vent’anni del secolo scorso (Ellis, McInerney, Leavitt…), scrivendo No Way Out non ho abbandonato le tematiche che mi sono care, i luoghi e le situazioni, ma mi sono divertito a giocare di più con le parole. A mischiarle, fonderle e confonderle sacrificando talvolta l’immediatezza espressiva per cercare di realizzare qualcosa di nuovo e diverso. In entrambi i casi, tuttavia, ho sempre scelto di utilizzare la forma narrativa della prima persona singolare. Nei racconti la decisione era stata in gran parte suggerita dalla volontà di strutturare la raccolta come una sorta di diario scritto a più mani, una libera confessione da parte dei diversi protagonisti. Per No way out l’uso della prima persona corrisponde alla necessità di dare sfogo ai pensieri del protagonista, una sorta di stream of consciousness che, attraverso la spontanea trascrizione dei pensieri e delle emozioni che complicano la sua vita, mettesse in scena la solitudine, il malessere generazionale e la ricerca di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparsi per cercare una via d’uscita al proprio male di vivere.
Quanto trova aderente alla sua realtà di scrittore la seguente affermazione di Carver “Tu non sei i tuoi personaggi, ma i tuoi personaggi sono te”?
E’ una affermazione che posso solo condividere. C’è sempre qualcosa di autobiografico in tutto ciò che si scrive. I quesiti, le risposte e le reazioni che hanno i protagonisti dei miei racconti non sono altro che la proiezione di me stesso all’interno di una storia che, al contrario, è frutto di fantasia o solo in parte legata alla realtà.
Lei crede che le storie di nessuno siano la versione letteraria delle storie di tutti?
Quando stavo cercando un titolo che si adattasse alla perfezione ai contenuti della mia prima raccolta di racconti, in un primo tempo avevo pensato a qualcosa che ricordasse la fuga, alla resa incondizionata senza il minimo accenno di resistenza. Volevo che il titolo mettesse subito in luce il leit-motiv di tutti i racconti, cioè la solitudine, il malessere derivante dall’impossibilità di accettarsi e accettare un mondo dove i protagonisti sembrano sempre chiusi in meccanismi il più delle volte imprevedibili, ma sempre sul punto di annullare qualsiasi tentativo di porsi positivamente nei confronti della vita. Una solitudine profonda, a tratti inconsapevole e altre volte vissuta con compiacimento. Così Vanishing Point (Punto di Fuga) mi era sembrato il titolo più adatto, tuttavia rileggendo i racconti mi sono accorto di un’altra componente fondamentale che garantiva continuità alle vicende narrate e le legava le une alle altre. Erano tutte storie minime, quotidiane, dove in apparenza non succede nulla di eclatante o sensazionale, dove è facile riconoscersi e dove ciò che fa paura non è l’ignoto, il mistero, ma i fatti e le situazioni che si possono incontrare ogni giorno sulla propria strada. “Piccole storie di nessuno” perché storie di tutti, piccole o grandi che siano.
Quanto di lei c’è nei suoi protagonisti?
Come anticipato in precedenza, con i personaggi del mio primo libro ho condiviso nel tempo scenari, stile di vita e di certo parecchie sensazioni ed emozioni, cosa che si è in parte verificata anche con il protagonista di No way out. Ciò non significa aver vissuto in prima persona le vicende narrate. Tuttavia è vero che mi sono più volte domandato, durante la stesura dei testi, come avrei reagito trovandomi al posto di uno dei protagonisti delle mie storie. Quali sarebbero state le mie emozioni e i miei pensieri. E’ difficile fissare il paletto oltre il quale una storia termina d’essere invenzione e diventa autobiografia, proprio perché il confine che delimita le due diverse situazioni non è sempre chiaramente identificabile.
Come sono stati concepiti, cresciuti e fatti nascere i suoi libri?
Sia per i racconti che per il romanzo la stesura segue degli schemi sostanzialmente identici. Quando inizio a scrivere una storia ho già ben chiaro in testa tutto quello che dovrà accadere, i personaggi e le scenografie. Ma la scrittura è solamente la parte finale del processo, perché il tutto nasce molto tempo prima, quando all’improvviso spunta l’idea di fondo che sta alla base del libro. Certo non tutti i pensieri offrono l’occasione adatta a generare una storia, il più delle volte rimangono nello stato embrionale. Così come può capitare che un’idea annotata da qualche parte, nata da una frase ascoltata in metropolitana o dopo aver guardato un quadro o una fotografia, vi rimanga parecchio tempo prima di diventare l’epicentro intorno al quale far ruotare emozioni, sensazioni e l’intero intreccio della vicenda da narrare. E’ per questo motivo che è molto più lunga la fase preparatoria che la stesura, una volta riunite le idee, raccolto tutto il materiale necessario l’ostacolo più difficile è già superato…da li in avanti è come se la storia si scrivesse da sola.