Questo romanzo ha un titolo perfetto. Di quelli che ti fanno venire subito voglia di leggere un libro. Ti volevo dire, tre parole che creano uno spazio potenzialmente infinito. Immagini qualcuno che parla e qualcuno che ascolta, ma il verbo all’imperfetto lascia il dubbio che le parole restino inespresse. In questa storia c’è una ragazza, come la copertina qui accanto fa capire, ma per me il vero protagonista non è un personaggio in carne e ossa quanto la fragilità. Andiamo per gradi: la ragazza si chiama Viola, milanese, ha 14 anni, e diventa muta pochi giorni dopo che trova Giacomo, il padre cinquantenne, morto nel letto. La voce le si paralizza, diventa muta ma tutte le parole che le mancano le trova in vecchie lettere e diari del genitore che iniziano così: “Ho conosciuto una ragazza”. E nell’esclusivo collegio svizzero dove la madre (e il di lei marito) l’hanno mandata, sperando che calma e tranquillità le facciano riprendere la parola, scopre il grande amore che Giacomo aveva vissuto ventenne con una ragazza inglese. E tutta la paura che gli aveva creato. Daniele Bresciani ha l’energia dell’esordiente, e al tempo stesso anche la saggezza dei suoi 50 anni, per costruire una trama polifonica dove padre e figlia si alternano: Viola parla in prima persona mentre la vicenda di Giacomo è tutta in terza. Ci fanno percorrere due rette parallele che alla fine si intersecano (la letteratura, per fortuna, se ne infischia delle leggi geometriche) seguendo un meccanismo narrativo che accelera (e prende) sempre più. Causa motivi anagrafici, mi sono goduto molto la parte di inizio Anni 80 dove Giacomo vive la sua insicurezza: “Tu hai uno strano modo di voler bene alle persone, a volte pensi di proteggerle evitando di dire loro quello che pensi e invece così le allontani”, gli dice Fulvio, che diventerà il suo miglior amico e che aiuterà anni dopo Viola a conoscerlo meglio e a scoprire la forza dei sentimenti. Un libro bellissimo, profondo e scritto in maniera professionale anche se è l'opera prima dell'autore.
Nicla